Canestro e Fallo

(Ri)fate presto

Un appello per salvare l'Auxilium

14.02.2019 13:37

L’ultima volta era novembre e auspicavo che si facesse presto. Avevamo bisogno di risultati e di qualcuno da amare.

Le preghiere sembravano esaudite. Se non subito, abbastanza in fretta. La sera dell’Immacolata, una settimana dopo l’esordio di quel fenomeno di Dallas Moore, Darington Hobson assaggia il parquet torinese. Difese, giocate, gesti per fomentare il pubblico: il cuore inizia a battere forte. Ancora più forte, perché un canestro folle di Wilson a una manciata di secondi dallo scadere atterra Trento e riproviamo la non familiare sensazione di uscire dal PalaVela col sorriso stampato in faccia. Sembrava poter essere di nuovo tutto bello. E invece.

Invece mazzate a Varese, completamento del filotto 0/10 in Eurocup e si arriva al drammatico scontro salvezza contro Pistoia. Dove siamo sotto, drammaticamente sotto. Poi rimontiamo, andiamo a più tre, inspiegabilmente non facciamo fallo sull’ultima azione toscana (Carlo Lucarelli in Blu Notte direbbe “ricordiamocelo”), ci graziano, Delfino fa una tripla di tabella sulla sirena (Carlo Lucarelli direbbe di ricordarci anche lui) e arriva un preziosissimo più sei. La sensazione, però, è diversa da quella dell’8 dicembre. E’ la sensazione di voler fare un po’ di festa, certi che il domani non sarà così bello. E infatti.

Infatti a Santo Stefano, contro Avellino, crolla tutto. Crolla la squadra sul parquet sotto i colpi di Caleb Green. Crolla lo spogliatoio, con l’ennesima visita non gradita, con Delfino che viene messo fuori rosa e Larry Brown sul primo aereo, perché anche prendere le leggende nel momento sbagliato, può essere la scelta sbagliata. Crolla il contorno tra stucchevoli diatribe social ed evitabili appelli societari a chi c’è sempre stato, ovvero il pubblico torinese. La squadra passa a Galbiati.

Nel frattempo, spuntano le prime voci di cessione della società. Cordate torinese. No, arrivano i romani. Che arrivi qualcuno, che paghi il bat a Patterson, che ci faccia tornare un secondo sul mercato. Ci comprano e prendiamo Silins. Ci comprano e prendiamo Washington. Madonna, Washington, non si gioca coi sentimenti, WASHINGTON. Guardiamo quell’oasi perché guardare il campo fa troppo male, anche se è solo un miraggio. Continuiamo a perdere. Perdiamo contro Cantù col peccato mortale di non aver vinto una partita in cui il Cuso fa una tripla solo rete, perché se non vinci una partita in cui Cusin mette un canestro del genere, meriti di essere punito. Ma non vinci. E allora guardi l’oasi anche se non sai se cadrai dalla padella alla brace. Ogni giorno è quello decisivo,  ma, alla fine, non lo è mai. Come la rivoluzione in “Qualcuno era comunista” di Gaber. Oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente.

Arriva Pesaro, altra sfida fra disperati. Più tre sull’ultimo possesso loro. Non facciamo fallo. Tirano da fuori. La palla picchia sul ferro e si impenna. In quel millesimo di secondo penso (pensiamo) la cosa che non si può e non si deve mai pensare “Abbiamo vinto”. La palla scende da chissà dove ed entra chissà come. Overtime. Siamo polli, ma siamo anche sfigati. Spengo, perché so già come andrà a finire. E infatti va a finire come so. La mia forma mentis non riesce a visualizzare la possibilità di poter vincere ancora una partita. Mai più.

La stessa sensazione nei primi due quarti con Venezia, alla prima di ritorno: molli, occhi spenti, il manuale di ciò che NON serve per salvarsi. Però, dopo l’intervallo, siamo un’altra cosa, rimontiamo, andiamo sopra. Poi perdiamo; perché loro sono troppo forti e ruotano in ottantamila, ma per la prima volta dopo tanto tempo sento che abbiamo di nuovo una squadra o qualcosa che gli somigli. E, dopo la sconfitta a Trieste (supplementare, of course), arriva l’ultima chiamata per dimostrarlo. Il doppio turno interno contro Reggio Emilia e Sassari.

Contro Reggio è la classica partita in cui una tifoseria pensa dell’altra “mica potremo perdere anche contro questi?”. Ma a qualcuno deve toccare e, per fortuna, tocca a loro con una nostra prov in crescendo. Una boccata d’ossigeno. Che va di traverso quando arriva la notizia che Pistoia vincerà a tavolino contro Milano per la squalifica non scontata di Nunnally a falsare la corsa salvezza. Sì, falsare. Che è diverso da gridare al complotto o a dire che non abbiamo responsabilità della situazione in cui ci troviamo (mamma mia se ne abbiamo): quello sarebbe dire una stronzata. Ma è una stronzata di pari livello negare che questo fatto ci penalizzi: non è che perché abbiamo sbagliato (quasi) tutto, dobbiamo ingoiare anche questa senza colpo ferire. La storia in questione ha un merito: mi fa (ci fa) tornare un’incazzatura positiva, dopo tante arrabbiature frustranti, che affossano. Mi fa tornare un’incazzatura di quelle che non ti fa vedere l’ora di tornare a Palazzo e, soprattutto, di urlare ancora più forte per la maglia, per darle una mano a salvarsi. Nonostante tutto.

E con Sassari va proprio così. Arrivo a gara iniziata e quasi non credo a cosa dice il tabellone. Ma vedo cosa dice il parquet e ci devo credere: Hobson predica basket, Mac carico sotto le plance come non mai, tiri da tre alla Golden State, PalaVela ululante. Siamo belli e c’è un’aria diversa. Gli applausi a fine partita, le facce felici, il sorrisone di Jaiteh. La pazza idea che mi viene nella testa: siamo tornati in forma per una final eight di Coppa italia che non disputeremo mai e peccato, perché se la disputassimo chissà. Un pensiero da pazzi, com’era da pazzi lo scorso anno. Un pensiero da cullare durante questa sosta, in attesa che la società passi di mano. Con curiosità e fiducia. Poi, all’improvviso…

 

La trattativa sta per andare in porto.

No, la trattativa si arena.

Leonis dice che mancano dei documenti.

L’Auxilium dice di averli mandati.

Tutto chiuso. No, forse si riapre. Interviene Fiat: si riapre.

Però se entro il 18 non si sanano determinate pendenze, in arrivo penalizzazione.

La penalizzazione.

LA PENALIZZAZIONE.

E allora è destino che quest’anno non si riesca e essere felici per più di un quarto d’ora.

E allora, come a novembre, l’urlo arriva più forte di prima ed è tutto puntato sul fronte societario: fate presto. Fate presto.

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